Domenica 13 novembre una bomba è scoppiata ad Istanbul, in Istiklal Caddesi nello storico quartiere di Beyoglu, causando 6 morti e decine di feriti. Si è trattato di un feroce attacco stragista perpetrato nel centro della città in una via commerciale e in un orario di punta affollato.
L’esplosione di Istanbul evoca una nuova operazione sotto falsa bandiera, una costante nella storia della Turchia. Dopo il golpe del generale Evren, nel 1980, gli attentati in questo paese sono stati una minaccia alla vita della popolazione ed uno strumento per seminare paura e repressione.
E’ noto che l’ultima ondata di attentati è stata soprattutto di marca jihadista. Tra le più note la strage di Ankara del 10 ottobre 2015 quando due kamikaze dell’ISIS si sono fatti saltare in aria nella piazza dove si stava tenendo un corteo per la pace con i curdi, in opposizione alle politiche del presidente Tayyip Erdogan. Nell’attentato rimasero uccise almeno 128 persone tra cui, da non dimenticare, i compagni Ali Kitapçi, anarco-sindacalista di Ankara, ferroviere e militante di Disk (Unione Rivoluzionaria), e Typhon Benol, di Devrimci Anarşist Faaliyet (DAF – Azione Anarchica Rivoluzionaria). Seguirono le stragi di Diyarbakır, che nel giugno 2015 costò la vita a 4 persone che partecipavano a una manifestazione filo curda, e di Suruç, che nell’agosto dello stesso anno fece 33 vittime e oltre 100 feriti, attentato anche questo condotto dall’ ISIS.
Dopo appena una manciata di ore dalla strage del 13 novembre scorso le autorità turche hanno arrestato decine di persone, a Istanbul salite poi a 47, e tra queste Ahlam Albashir, una donna di nazionalità siriana, sospettata di aver piazzato la bomba. Durante l’interrogatorio la donna avrebbe confessato la propria colpevolezza e il legame con i curdi del Pkk ( Partito dei lavoratori del kurdistan) e delle Ypg (Unità di autodifesa del popolo). Il ministro degli Interni turco, Suleyman Soylu, ha aggiunto poi che la presunta attentatrice, durante l’interrogatorio, avrebbe affermato di aver ricevuto istruzioni dal Nord della Siria, dalla provincia a maggioranza curda di Kobane. Avrebbe confessato inoltre di essere entrata illegalmente in Turchia da Afrin, regione oltre il confine con la Siria ma dal 2018 sotto il controllo turco.
Dell’attentato non c’è stata ancora nessuna rivendicazione e, ad uno sguardo attento, la versione diffusa dall’agenzia di stampa turca Anadolu è risultata da subito contraddittoria e troppo semplificata. La regione di Afrin infatti, dalla quale la donna avrebbe detto di essere entrata illegalmente in Turchia è stata occupata dall’esercito turco nel 2018 e dunque è sotto il suo controllo, della sua intelligence, del Partito AK, del Movimento Nazionalista, e di Ha y’at Tahrir al-Sham (al-Qaeda). Quella di Afrin è stata tra le operazioni militari lanciate dallo stato turco tra il 2015 e il 2018 contro i curdi sia in Siria che nel nord dell’Iraq e l’operazione militare denominata “Ramoscello d’ulivo” era partita nel mese di gennaio 2018. Mentre in quegli anni in Turchia venivano approvate le “leggi anti-terrorismo”, anche in risposta al fallito colpo di Stato del 2016, lo stato turco continuava a tessere rapporti e a foraggiare i jihadisti e lo stato islamico del califfato di Al Baghdadi (ISIS) o Daesh il cui ultimo avamposto Baghuz è caduto nel marzo 2018.
Come dimenticare? A Baghuz nella provincia di Deir Ezzor è caduto Lorenzo Orsetti (Orso), anarchico antifascista, Tekoser Piling nelle Ypg. La caduta del califfato ha lasciato in gestione all’Amministrazione autonoma della Siria del nord est (Rojava), circa 45mila prigionieri dell’ISIS e tenendo conto che lo stato turco va sfruttando ma non va assoldando a lungo termine le squadre di mercenari non è da escludere che, proprio per il ruolo stesso che questi mercenari rivestono, da “amici” possano trasformarsi di volta in volta in potenziali nemici per la Turchia.
In seguito alle accuse diffuse in questi giorni l’agenzia Firat ha subito pubblicato la smentita del Partito dei lavoratori del Kurdistan in cui hanno dichiarato di non aver avuto alcun tipo di legame con l’attacco del 13 novembre ad Istanbul poiché, come affermano nelle note, non prendono di mira né accettano azioni contro i civili. Inoltre hanno confermato nella dichiarazione di essere un movimento che porta avanti una giusta e legittima lotta per la libertà e di agire con una prospettiva che vuole creare un futuro comune, democratico, libero ed equo con la società turca. E a questo proposito, hanno sottolineato la loro estraneità all’attentato di Istanbul poiché è noto che per loro è fuori questione prendere di mira i civili in qualsiasi modo sul territorio della Turchia.
Anche Mazlum Abdi, portavoce delle Forze Democratiche Siriane, a capo della coalizione militare guidata dallo Ypg nel nord della Siria, ha smentito ogni coinvolgimento nell’attacco del 13 novembre.
Ad ogni modo dopo le accuse rivolte e le circostanziate smentite è stata intensificata l’allerta e la mobilitazione militare nei territori menzionati soprattutto nella zona di Ayn Arab (Kobane), epicentro delle tensioni con lo stato turco lungo la frontiera siro-turca. Kobane è la città liberata nel 2015 dall’assedio dello stato islamico e la sua resistenza ha permesso che la rivoluzione del Rojava venisse conosciuta nel mondo. Il 19 luglio 2022 è stato celebrato il 10° anniversario della rivoluzione e man mano che le forze di autodifesa arabe, armene, assire, siriache liberavano il Nord-Est della Siria dall’ISIS nelle città e nei villaggi la popolazione civile stabiliva le basi per una democrazia dal basso che oggi prende il nome appunto di Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, un sistema federale di autogoverno basato sul Confederalismo Democratico che affonda le sue radici nel movimento di liberazione curdo.
Il governo turco AKP-MHP guidato da Erdogan non ha mai accettato questa sconfitta e dopo le invasioni del 2016, 2018 e 2019, sta minacciando una nuova invasione nella regione su larga scala e non sta arretrando in nessun modo, andando contro anche il suo stesso popolo. Da mesi lo stato turco sta bombardando ampie zone del Kurdistan, sta usando droni e armi chimiche contro la popolazione civile da Sehba a Kobane, Derik fino a Sengal e ai monti Qendil, un’area di circa 700 km .
Si teme quindi l’imminente incremento della campagna militare da parte dello stato turco nella zona, come più volte annunciato dal governo di Ankara sin dalla primavera scorsa.
Lo stato turco sta cercando di ottenere consenso da parte delle potenze regionali per un’operazione militare in profondità in territorio siriano, mirata ancora una volta a disarticolare l’amministrazione autonoma curda nel Rojava, e in particolare a mettere fuori combattimento le Ypg, le Unità di autodifesa del popolo che costituiscono la spina dorsale delle Fds, le Forze Democratiche Siriane che hanno combattuto e sconfitto lo Stato Islamico nel periodo 2015-19.
Le ragioni? La cosiddetta “lotta al terrorismo” cavalcata da Erdogan e dall’AKP è stato uno dei cavalli di battaglia della sua seconda e ultima campagna elettorale. Nel 2023 ci saranno le elezioni presidenziali e, secondo la Costituzione del Paese, a meno che non si tengano elezioni generali anticipate, il presidente turco in carica non potrà candidarsi per un terzo mandato presidenziale. A quanto pare però non si potrà escludere un’accelerazione ad accaparrarsi le urne anticipate.
Dunque non è un caso che dal 2019 lo stato turco stia lanciando attacchi militari contro i curdi in Siria spacciati come «lotta al terrorismo», che abbia assoldato, stia usando e sfruttando i mercenari dell’ Isis, di Al Qaeda e di Al Nusra che stanno continuando a commettere crimini di guerra con la complicità dei generali turchi e l’assenso dell’opposizione «legale», visto che quella reale in Parlamento è stata decapitata e incarcerata. In prigione in Turchia ci sono circa 300mila persone di cui quasi la metà per motivi politici e reati di opinione.
Non ultimi sono stati gli arresti di numerosi giornalisti e della dottoressa Şebnem Korur Fincancı, presidente dell’Associazione medica turca (TTB) e specialista in medicina legale, che ha effettuato valutazioni sull’uso di armi chimiche da parte delle forze armate turche nelle regioni di Zap, Metina e Avaşin nel programma a cui era collegata a Medya Haber. Şebnem Korur Fincancı ha affermato che è stato utilizzato uno dei gas chimico-tossici che colpisce direttamente il sistema nervoso sebbene sia vietato utilizzarlo.
La dottoressa in una relazione ha fatto un appello affinché delegazioni indipendenti conducano ispezioni nella regione in conformità con le convenzioni internazionali, Fincancı prima del suo arresto ha affermato: “I principi del Protocollo del Minnesota dovrebbero essere affrontati, così come le modalità di conduzione di un’indagine quando tale affermazione sorge all’interno del campo di applicazione della Convenzione di Ginevra, che ostacola l’attuazione delle convenzioni internazionali e vieta l’uso di armi chimiche”.
Ed è in questa misura che Erdogan e il suo partito AKP stanno guidando lo stato turco, secondo paese NATO, candidato al Consiglio d’Europa, paradossalmente nominato mediatore per la “pace armata” nella guerra in Ucraina, tra i protagonisti indiscussi perseguitori da oltre un secolo del genocidio curdo consumato sotto lo sguardo velato nonché il silenzio complice della comunità internazionale.
Il 13 novembre a Istanbul si è consumata l’ennesima strage del terrore contro la popolazione civile in Turchia. Mentre in Indonesia, in questi giorni, stanno sfilando le strette di mano degli attuali capi di governo sul red carpet del G20, dove i cosiddetti padroni della terra, compreso Erdogan e Meloni, stanno continuando a decidere a discapito delle popolazioni, in Turchia si continuano a perseguitare e arrestare migliaia di politici, giornalisti, avvocati e attivisti, curdi e non, facendo gridare alla censura e alla repressione a fronte di una gigantesca crisi economica con un’inflazione all’80% e con gli investimenti militari perseguiti in nome di una fittizia ricostruzione del vecchio Impero Ottomano.
Norma Santi